Tra scuola, comunicazione e Generazione Z

Da qualche anno ho iniziato, tra le mie altre attività, ad entrare in aula per parlare di digital marketing con gli studenti dell’Istituto di Istruzione Superiore della mia città: una realtà di provincia, sicuramente diversa dalle grandi scuole delle grandi città. Ho avuto anche altre piccole esperienze di insegnamento di vario genere (corsi di formazione privati, lezioni universitarie, corsi di specializzazione, ecc.) ma di sicuro quella con gli studenti delle superiori è la più intensa, soprattutto dal punto di vista umano. Un paio di premesse sono doverose. La prima è che io arrivo a scuola passando per il mondo del lavoro e delle aziende; non sono un insegnante di professione e quindi sono abbastanza lontano dalle dinamiche quotidiane della Pubblica Amministrazione, che spesso fatico molto a comprendere. La seconda premessa è che la mia esperienza è sicuramente limitata, ma negli ultimi due anni ho avuto a che fare con circa 150 ragazze e ragazzi in quella fase delicatissima e bellissima che va dai 14 ai 19 anni, quindi ho a disposizione un piccolo campione per fare qualche riflessione incrociata tra scuola, comunicazione e Generazione Z (i nati dal 1996 in poi). Per capire quanto la mia visione fosse limitata, mi sono confrontato con altri che hanno avuto esperienze simili alla mia, e che molto spesso hanno confermato le mie sensazioni.

Preparazione, metodi e programmi

Niente cattedra, niente libri. Ok, io sono indubbiamente facilitato dagli argomenti che tratto in aula (social, pubblicità, marketing e comunicazione) e ovviamente questo metodo non è applicabile a tutte le materie. Personalmente preferisco stare in piedi, preparare qualche slide e magari far usare lo smartphone ai ragazzi per cercare qualcosa in tempo reale, rendendo la lezione più dinamica. Sarà che a scuola i libri non mi sono mai piaciuti molto, sarà che in questo settore i manuali diventano subito vecchi, ma preferisco portare in classe situazioni lavorative reali. Parliamo di novità (cose che succedono in questo mondo giorno dopo giorno), faccio domande, mi diverto a osservare le loro reazioni, provo a stimolarli con qualche bella campagna pubblicitaria, ma quello che mi piace di più è farli lavorare analizzando brand, messaggi e forme di comunicazione.
Bello eh? Sì, ma non è facile. Per niente. Il motivo è semplice: questo non è il loro metodo. Nella gran parte dei casi sono abituati ad avere capitoli e paragrafi da studiare, cose da imparare e ripetere, con metodi che spesso sono rimasti inalterati da tanti, troppi anni. Non riesco a spiegarmi come sia possibile oggi usare gli stessi metodi di 15 anni fa. Non è possibile oggi avere programmi di insegnamento che guardano indietro e non avanti. La scusa ufficiale è che “eh sì ma il programma ministeriale bla bla bla”. Tutto giusto per carità, ma se il mondo cambia e il lavoro cambia, anche la scuola deve cambiare. Teoricamente la scuola dovrebbe anticipare i tempi, invece troppo spesso li insegue. Il risultato? Studenti che dopo 5 anni in cui passano 5 ore al giorno a scuola (se le sommiamo, siamo intorno alle 5.000 ore) arrivano totalmente impreparati al mondo del lavoro. Si salvano solamente quelli che, per stimoli di vario genere o su suggerimento di famiglie e insegnanti, decidono di approfondire qualcosa in autonomia o di crearsi delle competenze che di sicuro escono dai programmi ministeriali. Ok, poi per chi vuole c’è l’università, ma questa è tutta un’altra storia.

Il marketing di oggi, per domani

Ho preso molti appunti. Sì, li ho presi io che teoricamente ero lì per farli prendere agli altri. Li ho presi perché avere la possibilità di confrontarsi in modo diretto con la Generazione Z è un’occasione fantastica -oltre che dal punto di vista umano- anche dal punto di vista professionale per chi, come me, si occupa di marketing e comunicazione. Se ne parla sempre come di una generazione disinteressata, maleducata, sfuggente e poco attenta. Non è sempre così. Spesso non si è semplicemente in grado di tirare fuori la loro sensibilità, che è totalmente differente rispetto a quella di altre generazioni. Troppo spesso non si parla la loro stessa lingua, ed è per questo che sembrano sfuggenti. Mi sono reso conto che guardarli negli occhi, ascoltarli e parlare con loro di pubblicità, social e comunicazione, significa aprire una finestra sul futuro. Significa capire cosa fanno, cosa cercano, cosa vogliono e cosa non vogliono, che piattaforme usano, come le usano, come passano il tempo, che musica ascoltano, cosa pensano del mondo, come si informano (se lo fanno) e cosa si aspettano dalle nostre istituzioni, famiglie e aziende. Sono gli adolescenti di oggi e i consumatori di domani. Anzi, sono già consumatori, solo che a volte non sanno di esserlo.

Un vuoto drammatico e pericoloso

C’è un vuoto enorme dal punto di vista della consapevolezza. C’è a tutti i livelli, ma quando parliamo di adolescenti la situazione è sicuramente più pericolosa. 5, 6, 8, 10 ore al giorno connessi, senza sapere nulla sulle possibili conseguenze. Sarò stato sfortunato io, ma su circa 150 studenti che ho incontrato, NESSUNO aveva mai sentito nominare, ad esempio, la FOMO. Nessuno aveva mai parlato a questi ragazzi del disagio psicologico che si può arrivare a provare essendo continuamente esposti alle vite (sempre al top) degli altri, storia dopo storia. Nessuno gli ha mai raccontato delle problematiche fisiche dovute a un utilizzo intensivo dello smartphone: problematiche posturali, legate alla vista, ai disturbi del sonno, alla concentrazione. Nessuno, in sostanza, li ha mai fatti riflettere su un utilizzo consapevole e sano della tecnologia. Di chi è la colpa? Anche della scuola probabilmente, ma soprattutto delle famiglie.
Ora vi avviso, sto per generalizzare. Cari genitori di figli più o meno adolescenti, che vivete la tecnologia come quella cosa che vi ha fatto ritrovare una gioventù ormai passata, che usate i social in modo compulsivo per condividere notizie e stronzate di ogni genere (fake o meno fake), per pubblicare selfie, giocare a Candy Crush, fare i quiz sulla personalità, popolare gruppi Whatsapp di ogni genere e inviare i buongiornissimi: state abbandonando i vostri figli. Li state abbandonando anche se sono in mezzo a migliaia di follower. Sono soli, senza nessuno che gli spieghi rischi e opportunità. I vostri figli usano i social in modo profondamente diverso da come li usate voi, ma voi non lo sapete. Voi non conoscete TikTok o Twitch, non sapete quello che succede su Telegram o su KIK. I più attenti forse si erano informati su Snapchat o su Ask. Voi non credete che ci sia bisogno di informarvi su queste cose, al massimo vi limitate a dire “ah, io di queste cose non ci capisco niente” come se fosse una giustificazione intelligente. Eh no signori miei. Se i vostri figli passano 8 ore al giorno facendo qualcosa (qualsiasi cosa), non potete fare finta di niente e usare l’ignoranza come una scusa.
Tutti noi dobbiamo pretendere dalle istituzioni delle riflessioni su questi argomenti. Dobbiamo pretendere che la scuola faccia entrare questi temi nelle discussioni di ogni giorno, e non relegarli a qualche ora buttata lì ogni tanto con l’esperto di turno. Ma soprattutto, dobbiamo pretendere da noi stessi di voler capire e restare informati su cosa fanno le persone quando passano giornate intere con lo smartphone in mano. Quelli che usiamo con i polpastrelli sono solamente degli strumenti, sta a noi decidere se usarli in modo sano per crescere, trovare e costruire opportunità, oppure per rovinarci la vita. Ma senza consapevolezza, non può esserci decisione.

I cervelli non sono scatole da riempire, ma lampadine da accendere

Quando si parla di formazione, a qualsiasi livello, è fondamentale centrare l’attenzione sugli stimoli. Le cose che mi hanno fatto imparare a memoria alle superiori 15 anni fa, magari portando a casa anche un bel voto in pagella, le ho dimenticate da un bel pezzo. Le argomentazioni di un professore con cui si discuteva di qualcosa visto il giorno prima in televisione, invece, oppure quell’idea che mi è venuta mentre mi esercitavo con qualcosa di pratico, ancora le ricordo bene. Quando il tuo compito è insegnare qualcosa a qualcuno, non c’è niente di più bello di quello sguardo che incroci nel momento in cui si è accesa una lampadina. Lo sguardo di chi ha veramente capito un concetto dopo averci riflettuto, o lo sguardo di chi sta pensando a come applicare una cosa che ha appena visto o ascoltato. Al contrario, quale può essere la soddisfazione di un insegnante nel rendersi conto che lo studente ha imparato a memoria un concetto? Una soddisfazione nell’immediato forse, o una maggior facilità nell’assegnare una valutazione. Ma poi cosa resta? Probabilmente il nulla.

Chi insegna agli insegnanti?

Ci sono corsi dove per gli studenti quello che conta è imparare un metodo di studio, oppure crearsi una solida base teorica. Ci sono materie che trattano concetti inalterati dal tempo, e che quindi si ripetono generazione dopo generazione. Ce ne sono altre però, in cui è fondamentale imparare qualcosa di concreto, spesso di pratico. In questi casi lo studente deve (DEVE) uscire con delle competenze spendibili. Migliorabili di certo, ma spendibili. Le aziende, in questo periodo storico, spesso non hanno tempo per formare il personale, quindi la responsabilità della scuola è aumentata: se nessuno assume persone senza competenze, queste competenze vanno acquisite il più possibile in aula. Facile, no? Ma come fanno queste competenze ad essere trasmesse, se chi ha la responsabilità e il dovere di trasmetterle non sarebbe in grado lui stesso di lavorare nell’ambito in cui insegna?
Il mio sogno è l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria per gli insegnanti di materie pratiche/tecniche, con tanto di scheda di valutazione redatta dall’azienda. E poi corsi continui per aggiornare o acquisire le competenze mancanti. E se alla fine caro Prof. non sei ancora al passo, spegni il registro elettronico e vai a casa, che qui di tempo se n’è già perso abbastanza.